TRADIZIONE
A TAVOLA
di Myosothis Giaramidaro
foto di Melo Minnella
Tratto da "La
Sicilia Ricercata" n° 11 - Val di Mazara
Si,
la Sicilia affascinante e unica, ricca di colori e profumi, di forti
tradizioni, incrollabili come le radici di un albero secolare. Immutabile
nei secoli e al tempo stesso tanto diversa di minuto in minuto e
di zona in zona. Si sente dire spesso “la cucina siciliana”,
frase sbrigativa e semplicistica. Ma cosa è “la cucina
siciliana”? Un mondo variopinto, l’espressione in tavola
di quello che dovrebbe essere a tutt’oggi il rapporto tra
i popoli: un donare e ricevere, scambio e unione, incontro e fusione,
da non confondere con la modernissima e raggelante globalizzazione.
Una realtà ricca e piena di sorprese da scoprire lentamente,
cucchiaiata dopo cucchiaiata.
Questa
è la Sicilia culinaria che, nonostante abbia una netta identità,
si esprime in tante sfumature, variazioni di gusto e aromi, a seconda
di quale cultura vi si è radicata: araba ad occidente e greca
ad oriente (senza dimenticare lo zampino degli Spagnoli). Ma non
è tutto: per un paese complesso come la Sicilia, sarebbe
troppo facile limitarci a tale contrapposizione.
Non
si può, infatti, tralasciare la divisione in tre Valli (da
Val, in arabo Wali, che significa governatore) attuata nell’827
dagli Arabi. E quindi un’ulteriore diversificazione in tavola
e non solo, che comporta ancora arricchimento per la cultura del
nostro popolo. Quale fu la cucina del più esteso dei tre
valli (più di metà dell’isola) e cioè
quello di Mazara, che trovava le “porte chiuse” a Termini,
Polizzi Generosa e Licata? Quella che possiamo apprezzare ancora
oggi, i cui inebrianti profumi ci investono mentre passeggiamo per
le vie di città come Mazara o la suggestiva Erice, Trapani,
e anche Palermo; probabilmente più il risultato delle fatiche
delle nonne ai fornelli che delle frenetiche donne moderne, schiacciate
loro malgrado da ritmi al cardiopalmo, nemici del ragù.
Ma
anche questa precisazione è semplicistica. Sempre in seno
al Vallo, infatti, occorre fare un’ennesima distinzione, tra
le ricette succulente delle zone costiere e quindi marinare, e quelle
altrettanto varie e prelibate delle zone agricoee, più interne.
Per tutte, comunque, un filo conduttore: bontà, spezie e
tanta fantasia, parafrasando il titolo di un celebre film di De
Sica.
La
separazione nei tre Valli fu una distinzione amministrativa che
terminò nel 1818, ma ancora continua per i fornelli di “donna
Maria” a Mazara e “donna Rosalia” a Palermo, la
prima con ricette rustiche, forti ma prive di frizzi e lazzi, la
seconda con pietanze barocche e l’uso dell’agro-dolce.
Partendo
da quello che era il capoluogo, Mazara, immediatamente vengono in
mente le tante varietà di pesce che la mattina presto si
possono acquistare nel mercato vicino al porto, oggi ricordo appannato
di antichi lustri. Irresistibili le lucenti sarde, che nelle serate
estive, con lo sprigionarsi del loro profumo dalla schioppettante
brace, richiamano come le sirene Ulisse, rischiando di far chiudere
il girone dantesco dei golosi con la lampeggiante scritta no vacant
da motel americano in orario di punta.
Della
Mazara, meta di parte delle mie vacanze, ricordo il clima di festa
attorno alla tavola natalizia imbandita, e l’accoglienza al
piatto di rito: baccalà con spinaci, aglio, uva passa, pinoli,
pomodoro pelato e cavolfiore (il sicibiano broccolo per intenderci),
immancabile per il cenone, e che poi ho scoperto essere un leit
motiv delle citta costiere del Trapanese. Povero ma dallo stupefacente
sapore leggiadro, debizia dei palati, anche il cagnulicchio, per
i bambini simiile ad un orrido serpente, tagliato a tocchi e fritto,
o in tegame con pomodoro, olive e cipolla. Dimostrazione pratica
di come le apparenze ingannino.
Sempre a Mazara - meta non proprio religiosa, anzi decisamente gastronomica
- c’è il convento di San Michele, dove le suore benedettine
si tramandano da secoli le segretissime ricette di dolci bontà.
Tra farina e odore di zucchero lasciato a dorare nel pentolino,
dispensano dolci peccati, dopo aver ricevuto le ordinazioni attraverso
una severa grata. Così, girando l’antica “ruota”,
un tempo salvezza per bimbi non desiderati, si potranno stringere
al petto le “creature” delle religiose.
Come
resistere alla tentazione di portare al palato gli squisiti muccunetti,
deliziosi bocconcini di zucchero, mandorle e uova, ripieni di morbida
zuccata e dorati da una vebata di zucchero.
Nella
vicina Castelvetrano, già le pietanze assumono caratteristiche
nuove, mentre altre mutano soltanto nome, facendo nascere vere e
proprie diatribe tra i gobosi delle due città, sulla paternità
di questa o quest’altra leccornia, e sulla giustezza del nome.
Soprattutto aumentano le ricette a base di carne, preferita al pesce.
Meta di periodi spensierati e felici, come posso dimenticarla? E
inevitabilmente, ricordandola con le sue strade, negozi e le tante
persone anziane dal dolce sorriso sulle babbra, mi pare di risentire
l’odore del pane caldo dalla spessa crosta e dal cuore morbido
e profumato detto, nella forma da un chilo, vastedda, così
come si indicano la forma di ricotta e il formaggio delicato e filante
di latte di pecora, prodotto nella Valle del Belice.
Pane
pronto ad accogliere il prelibato e biondo nettare locale, l’olio
extravergine d’oliva, per creare la perfezione: il semplice
e al tempo stesso saporitissimo pane cunzato, ottimo spezzafame
o cena senza formalità. Per tanto tempo snobbato -- troppo
rustico, of course - finalmente gli vengono riconosciuti i giusti
onori, e adesso addirittura capita di vederlo segnalato su pagine
di illustri riviste specializzate, con lo stesso snobismo con cui
in passato veniva evitato. Da aggiungere soltanto origano, sale
e, a scelta, pomodoro. Quest’ultimo poi, è inscindibile
dai miei ricordi: quante famiglie trascorrevano, e per fortuna trascorrono
ancora, gli ultimi giorni d’estate a preparare la “salsa”
per l’inverno, alla faccia debbe tanto decantate “passate”
di marca che popolano gli scaffali di ogni supermercato. Piccole
industrie caserecce, con tanto di categorie specializzate, in base
alle responsabilità. Che festa quando l’estate successiva
si passava di grado, “conferma culinaria” che si cresceva
e si stava diventando grandi.
Sempre
il pomodoro, protagonista dei giorni di caldo, regalava poi in inverno
quella squisitezza che è il ragù -- per favore, da
non confondere con la bobgnese. Pietanza della domenica o delle
feste, preparata con bischetto (taglio di maiale con un po’
di grasso), polpa di maiale e braciole di vitello (involti ripieni
da rosobare in padella sprigionando un profumo che mette a dura
prova la forza di volontà del più convinto dietista),
il ragù di carne si basa su un ingrediente fondamentale:
l’estratto di pomodoro, nato dalla paziente attenzione delle
signore che si beccavano solenni scottature ed eritemi, mentre trascorrevano
ore e ore a mescolare la salsa lasciata ad asciugare al sole su
grandi tavole di legno dette maidde. E quanti bambini si sono a
loro volta beccati irritazioni coi fiocchi a forza di rubare con
un semplice colpo di ditino, porzioni di quel concentrato di bontà.
Dall’arte
di arrangiarsi delle massaie nasce, invece un piatto veboce ma meritevole
di tavole importanti: la ricotta fritta, tagliata a fette e messa
in padella con le uova. Più delicata e prelibata alternativa
al “mangiare in bianco”, lo spaghetto condito con copiose
cucchiate di ricotta.
Sono
tante le squisitezze da poter elencare, e che ancora si possono
gustare, da lasciare nell’imbarazzo della scelta. Come dimenticare
i biscotti piccanti, vere bombe caloriche ma la cui bontà
fa accogliere con gioia qualche chiletto. Impastati con energia,
con la sola forza delle braccia, con tanto olio e semi di finocchio,
liberano un aroma e un profumo che ubriacano. Conservati in scatole
di latta, all’apertura acciuffano i sensi e non c’è
più via di scampo: uno tira l’abtro, peggio delle cibiegie.
E ad ogni morso il palato impara a scoprire un sapore nuovo, nascosto,
non rassegnandosi a dover porre la parola fine.
Altra
leccornia, i cosa duci ossia i dolci di Natale, ripieni di fichi
secchi, miele e mandorle tritate, che oltre ad essere buoni sono
anche dei capolavori artistici. Si, perchè le donne, riunite
attorno ai tavoli come in un circolo esclusivo, si davano un gran
da fare con lamette e coltellini: e, voilà, anche da mani
non certo esili e affusolate, nascevano alucce, roselline e tante
altre opere d’arte sul dolcetto, da sembrare un sacrilegio
morderlo.
Ultima
chicca locale, causa di vere e proprie lotte tra castelvetranesi
e mazaresi, è la cassatedda, cosidetta dai primi e invece
definita raviola dai secondi, pronti a sciorinare tanto di “albero
genealogico” per giustificare la boro tesi. La si chiami come
si vuole, un dato è certo: è questo un “boccone
degli dei”. Una semplice mezza buna di sfoglia, dal leggero
aroma di vino, che racchiude un preziosissimo cuore, impasto di
ricotta, zucchero, cannella e cioccolato che, con la semplice e
dorata frittura, sprigiona profumi irresistibili che si effondono
per le stanze, rendendo “casa” ogni abitazione. Una
delicata spolverata di zucchero e questi “dolci sorrisi”
rendono indimenticabile ba giomata.
Andando
nelle pietanze “salate”, forse sempre per la forma,
ci sono be uova a cassatedda, anche queste risultato dell’arrangiarsi
senza sacrificio alcuno per la golosita: uova fritte, con 1’albume
ripiegato, dandogli la forma della mezza luna, e poi tuffate in
un profumato mare di salsa di pomodoro, ovviamente fatta in casa.
E che dire dei cardi infarinati e fritti, rigorosamente senza i
“cuscini” della pastella tipica della frittura patermitana.
Abbagliati
dalle bianchissime distese di sale che la circondano, invece, a
Trapani, capitale debbe ricette di pesce, non si può non
assaporare il cuscus, espressione dell’integrazione tra arabi
e siciliani, piatto sovrano di ogni menù che si rispetti.
Quante famiglie lo hanno eletto a pietanza delle occasioni importanti,
con pesce soprattutto in estate e carne in inverno. Che esplosione
di profumi, che rituale nella preparazione, dalla ‘ncucciata
a mano della dorata semola, alla benta cottura nella pentola di
coccio forata, sigillata con un impasto di farina e acqua su un’altra
in cui è lasciato a cuocere il prezioso brodo che, con i
suoi vapori, insaporirà la semola.
Un
piatto unico che culla i palati, portando la mente verso terre lontane
ma al tempo stesso così vicine.
Sempre
a Trapani, classico di ogni pranzo domenicale è la busiata,
pasta fresca un tempo preparata arrotolandola su buse ricavate da
fili di piante bocali: grossolana ma proprio per questo così
saporita, imprigiona il sugo in un inestricabile abbraccio, che
toglie il fiato ad ogni goloso che si rispetti.
Attraverso
una lieve nebbiolina che quasi sempre la circonda, dando al turista
la sensazione di inerpicarsi, metro dopo metro, verso un altro mondo
e un altro tempo, la deliziosa e medievale Erice è una cornice
perfetta per le tante golosita che la caratterizzano.
Quante
volte passeggiando tra le lucenti stradine di basolato, affascinata
dai piccoli cortili piacevobmente gravati dal dolce e variopinto
peso di migbiaia di fiori, ho potuto assaporare i mustazzoli. Un
passo dopo l’altro, in una tranquillità irreale, si
viene investiti dal profumo del gelsomino e dal dolce odore di cannella,
quasi che una diligente profumiera si fosse divertita a impregnare
le mura delle essenze delle specialità del luogo. Come dimenticare
il gebato di scorsonera, per me novità ma, invece, peccato
di gola dei nostri avi.
Tornando
con i piedi per terra, tra le città dell’entroterra,
che bontà be zuppe di legumi, il macco, la pasta con i tenerumi
e quella con i broccoli. Piatti popolari che fanno felici i re.
E nelle zone costiere come Marsala (da Mars el Allah, porto di Dio,
o Mars Ali, porto di Ali), il tonno che, come per la Sicilia orientale
è il pesce spada, qui è il principe dei pesci, preparato
in un’infinità di ricette, una più saporita
dell’altra, tanto da far dire che “del tonno, come del
maiale, non si butta via niente”.
Faceva
parte del Vallo di Mazara, strano ma vero, anche Palermo, con i
suoi suggestivi mercati dalle colorate bancarelle e luci pendule
che ci riportano alla vicina Africa, e i venditori che attirano
i clienti con una cantilena da muezzin al momento della preghiera.
Il territorio palermitano ne faceva parte sino al fiume Imera, ma
la cucina assumeva, allora e ancora oggi, aspetti diversi: più
forte, più ricca, tripudio di colori, risultato della cucina
popolare che adattava ingredienti meno nobili abbe ricette signorili,
e di quella ricercata dei monsù che adeguavano ai palati
e agli ingredienti locali le raffinate ricette parigine.
Ed
ecco, per fare alcuni esempi, le sarde a beccafico, i carciofi in
pastella, la neonata fritta, la pasta con le sarde e la frittella.
Presente sempre e comunque in tutte be tavole, con l’arrivo
dei primi raggi di sole, non possiamo assolutamente dimenticare
la caponata, il cui nome deniva dal pesce capone. Si, perchè
Olive, cipolla, sedano e melanzane servivano come base per la preparazione
di questo pesce, ma (ecco che ritorna la benedetta arte dell’arrangiarsi
o, più eufemisticamente, la fantasia) la gente del popolo
omise l’oneroso pesce e così la caponata divenne un
piatto a sè, un po’ come accade nel Trapanese con il
broru di pisci fujutu, intingolo per una saponita zuppa di pesce
ma... senza il pesce.
Quante
debizie ancora, quante coccole per i palbati, ognuna con il proprio
carattere, la propria storia. La cucina del Vallo, un viaggio nella
storia, il dolce testamento di chi ci ha preceduto, un segreto tramandato
oralmente, come per le suore dei conventi, da madre in figlia, una
meraviglia che in tempi di fast food e globalizzazione va via via
scomparendo. Un modo di vivere e non solo di mangiare, con la tavola
momento di incontro e la preparazione di aggregazione. Il nisultato
di fatiche e di gioie, vero piacere, e non solo della gola, da gustare
lentamente.
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